Mi sono permessa di usare il titolo di un libro di un certo spessore per il mio ‘articolo’ per rendergli omaggio e consigliarvene la lettura (l’autore è Jonathan Safran Foer).
Abbiamo un problema.
Per sottostare alle crescenti richieste del mercato i piccoli allevamenti stanno scomparendo per lasciare spazio agli allevamenti intensivi/ industriali: forma di allevamento che utilizza tecniche industriali e scientifiche per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo e utilizzando il minimo spazio, tipicamente con l’uso di appositi macchinari e farmaci veterinari e che comporta l’immissione sul mercato di prodotti di scarsa qualità ottenuti con un eccessivo sfruttamento di risorse naturali.
In Paesi come l’America negli ultimi 30 anni il consumo di carne è aumentato di circa 50kg/testa/anno raggiungendo gli 80kg procapite.
Questi allevamenti sfruttano le riserve di acqua dolce, che stanno diminuendo rapidamente, per irrigare le terre destinate al pascolo e per l’abbeveraggio dei capi di bestiame: una bovina può arrivare ad assumere fino a 250l di acqua al dì e un allevamento a sfruttarne 1000 tonnellate al dì; inoltre per produrre 1kg di alimento vegetale vengono sfruttati dai 500 l (nelle patate) ai 5000 l (nel riso) di acqua, mentre per ottenere 1kg di carne ne occorrono dai 3000 l (del pollo) ai 70 000 l (e oltre, del bovino), 1000 l per uno di latte e fino a 5000 per 1kg di formaggio.
Salata o dolce l’acqua viene comunque inquinata principalmente proprio dall’ agricoltura animale e dal suo smodato utilizzo di diserbanti,pesticidi e fertilizzanti oltre che dal suo errato smaltimento dei residui fecali azotati prodotti dagli animali: sono già stati inquinati 55 000 km di fiumi in 22 stati americani (la circonferenza della Terra è di 40 000 km); avvelenati 13 milioni di pesci e uccisi più cittadini americani dell’AIDS raggiungendo le 18’000 vittime; in Italia la mole dei reflui animali raggiunge le 10 milioni di tonnellate l’anno prodotte soprattutto al nord (a livello della pianura padana che rientra fra le 8 aree più inquinate del pianeta per azoto e fosforo) dove si ha la massima concentrazione di allevamenti bovini e suinicoli.
Inoltre vi è un enorme spreco di cereali poiché vengono destinati all’ alimentazione animale anziché a quella umana; un manzo deve mangiare 6 kg di frumento o di soia, che potrebbero essere destinati a sfamare numerose persone, per produrre 1 etto di carne che basta a malapena per una e la quantità di terra necessaria all’ allevamento è esponenzialmente maggiore di quella necessaria a coltivare risorse vegetali sufficienti a sfamare direttamente lo stesso numero di persone e questo ci costa anche in termini di alberi e foreste.
Risulta evidente la sproporzione fra investimento e resa.
Vi è anche un impiego massiccio di combustibili fossili per il trasporto del mangime e degli stessi animali come anche per il funzionamento dei trattori e per fornire energia alle aziende poichè usano anche ventilazione e illuminazione artificiale.
Il relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione Jean Ziegler ha “definito crimine contro l’umanità” la trasformazione di 100 milioni di tonnellate di cereali in etanolo mentre quasi un miliardo di persone soffre la fame.
Come potremmo allora definire la pratica dell’industria zootecnica che ne usa 756milioni di tonnellate l’anno per l’alimentazione del bestiame?
Rinunciando a circa 500 g di bistecca a settimana per tutto l’anno possiamo salvare 910 mq di foresta; 390 kg di cereali potranno essere destinati all’alimentazione umana (non possiamo subordinare la fame nel mondo al nostro piacere nel mangiare prodotti animali); 403000 litri di acqua ed evitare l’emissione di 936 kg di anidride carbonica.
Fonte :Chiara Pulin redazione InformaSalus